Χαίρετε, φίλοι!

venerdì 19 gennaio 2018

Se questo è uno scrittore

«Io non so» rispose Berta.
«Tu non sai» Selva disse. «Tu lo dici che non lo sai. E invece lo sai. Chi può non saperlo?»
«Lo sa. Lo sa» disse Enne 2.
Egli sempre aveva gli occhi che scintillavano. «Vuoi che non lo sappia?» disse.
«Lo so che lo sa» Selva disse. «Come tu pure lo sai.»
E guardava ardentemente tutti e due. «Lei lo sa e tu lo sai. Tutti e due lo sapete. Ma non siete felici.»
«Non siamo felici?»
«Non lo siete.»
«Sei sicura che non lo siamo?»
«Ne sono sicura. Non lo siete.»
La vecchia Selva si rivolse di nuovo a Berta.
«Vero, ragazza, che non lo sei?»
Berta si lasciava guardare. Non rispondeva.

È un anno e mezzo che, per curiosità e ragioni professionali, mi sono imposto di leggere i grandi classici italiani del '900: Buzzati, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Fenoglio, Pavese, Pasolini, Carlo Levi, Moravia, Calvino. A parte una eccezione, quella del Gattopardo, ho sempre avuto l'impressione di confrontarmi con dilettanti della letteratura, gente dotata di poca cultura e di modesta capacità scrittoria. Il passo che cito sopra, tratto dall'esordio di Uomini e noi, ne è un esempio lampante, per la sua dizione stucchevole e la banalità del dialogo. Non solo, in Pavese e Buzzati – a prescindere dalla bellezza o meno delle storie narrate (ho letto la poco credibile Bella estate, l'avvincente La luna e i falò e lo stucchevole Deserto dei tartari) – si trovano strutture sintattiche ed espressioni verbali la cui congruità con lo bello stile è tutta da dimostrare, così come la loro correttezza grammaticale. Ho letto storie assolutamente poco credibili, come quella dei Sentieri dei nidi di ragno, o assurde, come Una questione privata, il cui autore sembra più intenzionato a dire al mondo quanto sia bravo a scrivere in inglese – questo, però, è lapalissiano soprattutto, nel Partigiano Johnny – che a raccontarci una storia e a raccontarla bene.

Per salvarmi da questo incubo, mi sono preso una pausa con Cuore e Pinocchio: libri per bambini, forse si dirà, ma scritti in italiano, in un italiano che suona e che non fa sobbalzare ogni due o tre pagine, sbriciolando le certezze di un decennale apprendimento della lingua del bel paese dove il sì suona.

Perché provo questo disagio? La risposta è che, impregnato di una educazione classica che fino all'inizio del Novecento era esclusivo appannaggio della élite intellettuale del paese, percepisco la letteratura degli ultimi 100 anni, con ovvie esclusioni (penso a Bassani, Pirandello, Tabucchi, Eco e, perché no, a Camilleri), frutto di una massa di scrittori che hanno avuto una educazione modesta e che, per ragioni politiche o economiche, sono divenuti – ahimé – prosatori, forse perché era loro – e solo a loro – concesso.

Chi ha avuto l'educazione di un Manzoni o di un Foscolo – non dico Leopardi, ché lui è un caso unico e, oggi, irripetibile – ha spesso la fortuna di fare mestieri di grande caratura intellettuale, come l'essere insegnati di ogni ordine e grado. Nonostante le persistenti chiusure classiste, questi mestieri si sono aperti, per cui un 'poveraccio' può oggi ambire ad avere una cultura che si avvicina a quella dell'élite borghese e aristocratica del Settecento e dell'Ottocento, benché la vita contemporanea, per fortuna priva della subordinazione classista di allora, ha tolto all'intellettualità molto tempo allora dedicato allo studio, ché oggi esso è impegnato nella cucina, nel lavarsi la casa o nel montarsi un mobile dell'Ikea.

Questa classe di persone istruite, oltretutto, è impegnata per vivere in mestieri che sempre di più, grazie all'esplosione della burocratizzazione del lavoro intellettuale, costringono a perdere troppo tempo nel compilare moduli, sostituendosi ai segretari, oggi assai poco avvezzi a un lavoro da loro inteso come degradante e umiliante.

Se lo studio non assicura più condizioni di lavoro migliori, la conseguenza a livello letterario è che chi dovrebbe scrivere libri non riesce a farlo e chi può scriverli non è adatto a tale compito. È oggi più facile che uno scansa-fatiche figlio di papà (o di mamma) scriva un libro oppure che un segretario faccia il poeta piuttosto che lo sia una persona con la formazione adeguata per farlo.

A ben pensarci, ciò ha una conseguenza politica non da poco: è questo un mondo in cui gli esperti lavorano nei loro mestieri – spesso denigrati dagli inesperti, che ne giudicano le competenze su non si sa quale base – mentre chi poco sa o poco vuol fare si dedica a compiti una volta appannaggio solo di chi sapeva.

Insomma, ho sempre considerato – anacronisticamente – un 'fascio' Platone per il suo amore per i sophoi, i saggi esperti che dovrebbero occuparsi della Respublica, ubbiditi dal resto della società; ho sempre ritenuto che una società dei migliori fosse un abominio, ché poi i migliori tendono a definirsi tali e a considerare 'cattivi' chi non è dell'élite.

Eppure, se una persona che scrive come una bambino mediocre delle scuole medie – alias il Vittorini sopra citato (l'esempio non è isolato: leggetevi il Garofano rosso!) – oppure se un ignorante diviene il primo ministro, qualche problema ci sarà pure.

Ché, come in Fahrenheit 451, non è detto che la Letteratura sia una acquisizione per sempre, un ktema eis aei: neanche la democrazia, del resto, è tale, rischio gravissimo se, come oggi, i peggiori osteggiano – se non odiano – i migliori, quelli che lo sono non per appartenenza di classe ma per competenza acclarata.

mercoledì 19 luglio 2017

La mia promessa

Voi, che mi conoscete bene, sapete già come io sia proprio un orso, se devo a ringraziare: in tali occasioni, mi ritrovo sempre a perdere le parole, arrossisco e ho tanta voglia di nascondermi.

Oggi, però, non posso permettermi questo lusso, e non solo per ragioni di circostanza.

Questo pomeriggio, le aride ragioni di etichetta m’hanno costretto al silenzio: non potendo promettere in nome di una grazia che mi è del tutto ignota, ho però giurato in nome di quanto ho più caro al mondo.

È questo, per me, il valore più grande.

Ho promesso, in primis, proprio in nome di chi non è solo la mia veneranda sposa, ma l’amica dalle dita di rosa che riluce sul mio mare un po’ troppo salato e sui miei campi – ahimé – non sempre fioriti.

Ho promesso sui miei, che, in questo giorno, sono riuscito a trascinare all’église catholique, un po’ commossi, un po’ agitati e, soprattutto pieni di speranze nel nostro futuro;

J’ai promis sur tonton Patrick et sur Éléonore, que la chaleur bolognaise n’a pas empêcher d’être ici aujourd’hui ;

Ho promesso sui miei amici bolognesi,

quelli che sopportano il mio essere pantofolaio – vero, Irene e Marco? –

quelli appena più grandicelli, Camillo e Renzo, che sono soliti salutarmi con affetto in sala A

e quelli che, come Costanza e Matteo, la distanza non ha mai allontanato dal ricordo quotidiano;

Ho promesso su chi – e non da oggi – è parte della mia famiglia, da ricompensare con qualche cena un po’ troppo abbondante;

Ho promesso, infine, su chi un rozzo certificato dell’anagrafe non annovera fra i miei fratelli, ma che, fratelli, lo sono di fatto.

Insomma, è su tutti voi, sulle persone a cui voglio più bene, che oggi ho promesso: siete voi il mio valore più alto.


Di questo e del vostro esserci vi ringrazio di cuore.

martedì 13 giugno 2017

Tu non puoi essere buono

«Tu non puoi essere buono» mi dissero, quando avevo appena 6/7, perché quella «storia lì», il mio essere non credente – e, soprattutto, non battezzato – ostava alla naturale bontà che un uomo, ancora nell'età dell'innocenza, ha per «grazia ricevuta». Tacciato di malvagio prima di scegliere la mia strada nel mondo, ho incontrato molte persone buone, che non mi hanno – ahimé – redento. Non valse la domanda, titubante, di chi mi chiese preoccupato: «ma tu a chi chiedi aiuto, quando stai male?», né la sicurezza di chi riteneva mi avrebbe convertito, né chi mi considerava un estremista perché dichiaravo e ad alta voce le mie idee (così pericolose, in quanto figlie dell'Illuminismo).

Un sovversivo e della peggior specie, spesso respinto – e giustamente – dai buoni.

Certo, anche io ci mettevo del mio. A un prete, in seconda media, dissi che era un misogino, solo perché costui diceva che le donne dovevano stare a casa, senza lavorare, per badare i figli; a un altro dissi che la sua elemosina era del tutto inutile, perché ad personam, mentre io sognavo – e sogno – una solidarietà umana generalizzata, per cui la società si tassa per aiutare chi sta male, per aiutare tutti, senza distinzione di razza, cultura, genere, aspirazioni e orientamenti sessuali. 

Un socialista ateo, una belva che «non può essere buona».

Del resto, chi non mantiene la parola data? Chi non giura sul trascendente, chi non si affida all'assoluto, ma promette solo sulle sue forze: egli non sa cosa significhi giurare, perché non può chiedere a un dio d'essere sciolto dalla parola data, come Lucia nel Promessi Sposi, facendo così il contrario di quanto precedentemente affermato. 

Un ateo miscredente, infatti, non sa cosa vuol dire veramente giurare.

E, così, ho passato la vita un po' da reietto, dovendo chiedere scusa, se dicevo che dio per me era una favola inventata dagli antichi; subendo i giusti rimproveri di chi mi ricordava che non ero una persona profonda, sensibile e, soprattutto, buona.

Perché una persona cattiva non può essere vera.

Pazienza che anche una persona cattiva abbia anche lei le sue aspirazioni, come l'amicizia, l'amore, la passione e la speranza. Già, pazienza. Quella che un uomo cattivo deve avere, quando sente un prete che dice che l'aborto è un abominio, perché ha sottratto intelligenze italiane al paese e ha dato spazio a stranieri che non contribuiscono alla ricchezza collettiva; pazienza per «le donne dei musulmani che sono tutte serve»; pazienza per «solo chi giura in dio sa veramente cosa significhi fare una famiglia»; pazienza per «ci sono addirittura bimbi con due papà» o con genitori «che si lasciano, senza capire il valore sacrale del per sempre»; pazienza per «la fecondazione in vitro non è un atto d'amore»; pazienza per chi inneggia ai metodi naturali, perché solo così ci si ama sul serio, accarezzandosi senza qualcosa che si frappone.

Perché una carezza data su una spalla coperta da una maglia non è una vera carezza.

Già, perché chi è cattivo, se vuole provare a fingere d'essere buono, deve fare come se fosse un credente. E deve accogliere la Verità, per essere quanto meno sopportato.

Perché una persona cattiva non ha diritto di parola.

E non importa se un ateo crede che l'unico vero vincolo che ci astiene dal male è l'Umanità, quel senso di rispetto per le altre formichine che porta a difenderci assieme dalla Natura Maligna, come suggerisce Leopardi nella Ginestra. Non importa se io abbia tanta voglia di accogliere, ma sia stato troppo spesso respinto.

Sono ateo e, quindi, sono cattivo, come Rosso Malpelo. 

Certo, come lui, non accoglierò la mia ‘Rannocchietta’, perché non ne sono capace, essendo senza dio e privo di anima: ma lei – e tutte le persone che provo ad amare pur non riuscendoci – difenderò finché ne avrò le forze. Lasciando loro uno spazio considerevole fra le mie connessioni neuronali.

Già, perché un captivus diaboli non può avere un cuore.

lunedì 20 giugno 2016

Il Fanculismo e il Dopoevo d'Europa

Il vantaggio di scrivere su un blog che nessuno legge è la possibilità d'avvalersi della piena parresia, ossia la libertà di parola che, su facebook o altrove, è gioco-forza negata. Dopo i risultati di questa notte, preceduti da un anno o più di discussioni sulla polis che mi paiono sempre più agghiaccianti, sento un bisogno atavico di esprimere, nero su bianco, tutto il mio pensiero.

‘Fanculismo’, a mio modo di vedere, è l'etichetta più adeguata al modo di parlare della ‘cosa pubblica’ che attanaglia non solo l'Italia ma tutto il mondo occidentale. A quel paese, secondo la celebre canzonetta di Sordi, si manda tutto, le istituzioni, la scuola, lo stato, gli altri, il sapere, la cultura, il lavoro, i partiti, il coniuge e, a volte, anche i figli. ‘Fanculo tutti’, parafrasando un coro da stadio che sentii anni fa a Roma: «odio tutti alé, odio tutti alé». Una rottura totale del contratto sociale, dove il rispetto dell'altro viene costantemente meno, con tanta pace delle tanto amate origini cristiane d'Europa o, più alla lontana, dell'humanitas e la philanthropia tanto care alle culture romane e greche.

Donde deriva questa crisi che richiama – per certi versi – il Medioevo, a causa della messa in discussione di tutti i principî su cui la cultura europee si è fondata dall'Umanesimo in poi? Le ragioni, credo, sono tanto culturali che economiche, come sempre. Due sono le tappe che hanno condotto a questo momento. La rivoluzione industriale e il fordismo hanno dato a tutti, in Occidente, la possibilità non solo di vivere dignitosamente, ma di avere un surplus economico tale da concedere loro di poter perdere tempo come più gli piaceva: non è un caso che il '900 sia il secolo dello sport, degli stadi pieni, dei grandi concerti, dei parchi pubblici stracolmi. Gente che non aveva mai avuto nulla si è goduta una libertà mai avuta, senza poi chiedere troppo alla classe dirigente: era il benessere materiale già sufficiente. Lo sviluppo economico e produttivo ha poi condotto – quasi naturalmente – alla necessità di incrementare il tasso culturale medio, donde si è proceduto alla democratizzazione della scuola, ancora legata a un mondo in cui solo il 10% sella popolazione studiava. È stato così che, dagli anni '80 in poi, chi voleva poteva avere non solo un diploma di scuola superiore, ma anche una laurea: il sogno dei poveracci degli anni '70. Gli anni '80, però, hanno conosciuto anche la rivoluzione informatica, che ha cambiato radicalmente il modo in cui la produzione si esplica: il computer consente di produrre di più con meno operai, liberando il lavoratore dalla necessità di passare ore e ore in fabbrica. Non solo, sempre più tale nuovo sistema ha permesso di eliminare il lavoro del tutto, per cui ha eliminato anche il lavoratore.

Il fatto, di per sé, non sarebbe negativo. Una classe dirigente sana avrebbe dovuto vedere il pericolo dal suo sorgere e democratizzare la scuola, dando a tutti la stessa istruzione offerta nell'Ottocento a pochi. Un'ottima istruzione, senza dubbio, che ha dato ottimi frutti. Avrebbe poi dovuto pensare a come redistribuire la ricchezza in modo equo, facendo lavorare poi chi era stato espulso da ciclo produttivo nei servizi, valendosi così dell'accrescimento culturale della popolazione: per assistere gli anziani, i disabili, per creare una buona istruzione, per fare ricerca, per rendere esteticamente belle le città ci vogliono competenze e intelligenze. Si sarebbe dovuto porre la questione di come tassare la produzione, forse con l'iva, forse la creazione di infrastrutture che impediscano la fuga delle aziende all'estero, forse con altri mezzi: chissà!

La realtà è ben diversa. La scuola ottocentesca è stata smantellata, e non solo in Italia. Era più facile, meno costoso e rendeva gli elettori più felici: perché negare un diploma a una ‘capra’ oppure una laurea, ché ciò lo renderà felice. Il risultato, però, è dei più pericolosi: si sono create generazioni di persone che si credono intellettuali e, invece, sono ‘capre’ o, meglio, quasi analfabeti. Che leggono un post su facebook e che credono di essere informati; che leggono un libro economico del primo cretino di turno – le case editrici non fanno filtro culturale ma economico: del resto, Berlusconi è un editore – e si atteggiano da economisti. Insomma, si è fatta la democrazia, ma senza i mezzi con cui essa si possa alimentare: la competenza, il sapere, l'onestà intellettuale. Quante persone abbiamo sentito, del resto, dire che la scuola non serve a nulla? E non perché si esce dai licei senza conoscere la matematica, il latino, il greco, l'italiano, la fisica, la biologia, la chimica, l'inglese, l'arte, etc., ma perché queste materie sono considerate inutili. Si è creato addirittura il liceo sportivo e mi aspetto, fra un po', quelli sessuale, ‘praticamente’ più utile di una bella espressione di secondo grado!

Da qui, a mio avviso, nasce il Fanculismo. Dato il ‘liberi tutti’ offerto dalla scuola democratica, oggi nessuno vuole più seguire le classi dirigenti. Pour cause, ché la qualità umana e culturale di tali dirigenti è quel che è, figlia di un mondo che, per molto tempo, ha lasciato la politica agli inetti e agli scioperati che non sanno fare nulla nella loro vita. C'è poi un fatto, come dice Omero nel I libro dell'Odissea: gli uomini vogliono sempre sentire un canto nuovo; per cui, quando si arriva alle elezioni, si sceglie sempre il candidato diverso, perché il vecchio ha scocciato, un po' come quando si cambia un iphone 6 con un 6s. Ha scocciato perché ha fallito: ovvio, se prometti che una città o un paese in 4/5 anni diverrà il Paese del Bengodi. E perché la sparano sempre più alta i candidati? Perché se non prometti il Bengodi, beh, perdi, dato che hai creato un popolo indipendente ma composto da ‘capre’. Immaginate, a tal proposito, un branco di pecore geneticamente modificato che non ubbidisce più al cane pastore, un cane che è oltretutto pigro, scemo o pensa agli affari suoi: non avrete più un gregge ordinato, ma un caos ingestibile.

Come si esce da questa situazione? Ecco, su questo sono pessimista. Questa generazione – la mia – non crede nella scuola e nella istruzione di qualità, quindi fa studiare poco i figli, a cui si prescrive tanto sport e tante attività collaterali. Non c'è più la sana etica del lavoro, quella che rende ‘puritanemante’ saggi e può far valutare la situazione presente – sempre più complessa (la globalizzazione non è uno scherzo!) – con criteri di giudizio adeguati. La classe dirigente arranca, anche perché, se fosse decente, non potrebbe più invertire la rotta, ché sarebbe non più eletta. In tutto questo, si vedono scelte strategiche pericolose: la sventolata energia verde e agricoltura bio, uno pseudo-socialismo reale in cui lo Stato aiuta tutti i cittadini (si pensi al salario di cittadinanza). Cose che non supportano lo sviluppo economico e creano fame e disperazione fuori dai confini europei: del resto, la volontà di chiudere le frontiere agli immigrati non è fuori da questo schema, perché il radical-chic delle chimere ha poi paura di chi muore di fame e viene qui con usi e costumi potenzialmente asociali.

Crisi economica, culturale e politica: a pensarci bene, viene subito in mente la Roma del III e IV secolo d.C., quando i governi si facevano e disfacevano in pochi mesi, con gli stranieri alle porte, crisi demografica ed economica, particolarismi di massa, il tutto rassicurato dall'illusione che la civiltà romana non sarebbe mai caduta, ché essa era ormai nelle cose come l'acqua nel vino (ops, anche quello si è perso!). 

La storia, purtroppo, andò in un altro senso e, appena un paio di secoli dopo, gli architetti non sapevano più fare neanche un arco. Figuriamoci una cupola.

Insomma, speriamo che il Fanculismo non ci porti a un nuovo Medioevo, un Postevo che non vorrei mai consegnare ai miei figli.

venerdì 22 aprile 2016

Metariflessioni

Scena da BAR.


L'oste: «Ho fatto per sbaglio un orzo, qualcuno lo vuole?». Un avventore: «chi fa un orzo uccide una birra!».



L'uso di una parola inconsueta in una scena come quella giocosamente dipinta dal mio post implica la volontà espressiva di rendere un'atmosfera che è intraducibile a parole, a meno di non dilungarsi in una descrizione lunga e particolareggiata. Parlare di oste e avventori per un barista e i suoi clienti determina nel lettore l'idea di trovarsi in un luogo familiare, in cui i clienti parlano amabilmente con – magari – rudi proprietari, ma con una schiettezza che spesso manca negli asettici bar contemporanei. Non ché quel bar sia divenuto un'osteria o, se vogliamo, una hosteria (ché è diverso), ma perché, per un istante, si è respirata un'aria di antica memoria che oramai non si percepisce quasi più. Insomma, come dice Leopardi, tra parola e termine vi è una profonda differenza, con la prima che è «poeticissima», in quanto densa di sfumature proprio perché desueta.

lunedì 18 aprile 2016

Referendum, Renzi e Democrazia

La litania del “chi non ha votato è uno a cui non importa nulla” è francamente fastidiosa.

Per chi, come me, ha sempre votato e, questa volta, non l’ha fatto per ragioni che ritengo essere forti non è solo fastidioso ma quasi offensivo: nei referendum, del resto, il non voto è costituzionalmente ammesso, come ha ricordato il Presidente Emerito: è un diritto sacro santo dell’elettore non andare a votare

Detto questo, il referendum aveva tre motivazioni che io non condivido.

1) Quella maggioritaria, che vuole osteggiare le fonti fossili per passare alle rinnovabili. Una opzione, a tutt’oggi, illusoria e che può essere anche pericolosa, per l’economia e l’ecologia. La redditività dell’eolico, del solare, etc. è assai minore che quella del nucleare e delle fonti fossili, quelle cioè che consentono di muovere le fabbriche, i treni, ovvero l’industria. Un conto è mettere pannelli solari (per la cui produzione si usa tanta, troppa energia) su tutte le case, un conto è pensare di muovere Mirafiori con il solare. C’è poi il problema dell’impatto ambientale: riempire campi oggi adibiti a grano, frutta, boschi, prati, etc. di pannelli solari è esteticamente brutto e anti-ecologico. Vi è poi la questione che del NOismo: no al nucleare, no alla TAV, no alle trivelle, no all’Ilva, no alle discariche, no alla carne, no al cibo prodotto in modo industriale e via discorrendo. Sono spesso questi “no” senza senso, dettati da un conservatorismo che trasforma la così detta “Sinistra radicale” nella destra più retrograda e anti-modernista dall’epoca della Vandea. Sono “no” sbagliati: eticamente, perché i treni uniscono, perché il cibo industriale salva o potrà salvare milioni di persone dalla fame; economicamente, perché per fare gli insegnati, i ricercatori, gli avvocati, gli impiegati, i medici, gli artisti, i ballerini, ci vuole un paese che produce ricchezza e che si possa permettere tali nobili e bellissimi mestieri. E, in questo senso, il reiterato “no” al nucleare è una ferita che ancora scontiamo, soprattutto perché l’Italia vive di energia nucleare venduta da Francia e Svizzera e perché centrali nucleari sono state convertite in centrali a carbone, assai più inquinanti.

2) Vi è poi chi ce l’ha con Renzi: ad esempio gli insegnanti, inviperiti per il concorso, inviperiti per l’Invalsi, inviperiti per tutto (parlo di loro, perché di loro leggo su Facebook più di sovente). È un lobbista, un populista, uno che governa con Alfano, un faccione, etc. Vero, tutto vero. Ma, poi, mi chiedo perché non abbiate fatto lo stesso pandemonio con il “facciamoci una banca” della vecchia dirigenza PD, perché non siate irritati dal sistema dirigista delle Coop rosse, perché non osteggiate i Bersani che alla generazione dei trentenni diceva di attendere e fare la gavetta, di ascoltare gli anziani: una idea di socialismo né pre-sessantotto né ante-guerra, ma prossima al 1848. Del resto, il PD ha perso le ultime elezioni con Bersani: preferivate Grillo al governo, che è anti-europeista, anti-euro, anti-immigrati? Se la pensate così, beh, ve lo dico con franchezza: non ditevi di sinistra. Non è un male esser di destra, semplicemente è opportuno chiamare le cose con il loro nome. Tornando a Renzi. Le lobbies ci sono sempre, miei cari, il problema è come ci si rapporta loro. E, poi, mi piacerebbe che la gente riflettesse su un fatto: è o non è l’interesse superiore del paese più importante di quello di un comune o di una regione? Con questa cosa del federalismo becero il Passante di Valico o l’alta velocità sono costati 5 volte in più che le corrispettive opere – ad esempio – in Spagna: per fare un metro di alta velocità, bisogna ricompensare un comune che ha spostato un cimitero o una masseria con milioni di euro, sempre che tali enti locali non blocchino l’opera. È questo un modo di operare indecente. Poi, mi vien da pensare a Roma, la mia amata città: mafia capitale, che è nata con Alemanno, non è stata sfruttata dal PD di Renzi, perché Marino (che sia innocente o meno poco importa) è stato eletto prima che Renzi diventasse segretario. Al limite, è colpevole il PD dei Cuperlo. Su Renzi come persona e politico, bisogna ammettere che, nonostante il suo populismo che a me (fighetto pseudo-intellettuale) non piace, qualcosa egli ha fatto: la legge sulle unioni civili; un concorso della scuola che farà anche schifo, ma che impone il principio secondo cui, per avere un posto pubblico, te lo devi meritare; un incremento degli occupati; una legge elettorale che è da sempre stata nel programma del PD, dei DS e del PDS, ossia il doppio turno. Poco, direte, ma sempre meglio dei governi del passato (fatto salvo il mio amatissimo Prodi, che ci ha portato nell’Euro salvandoci dal disastro economico e che ci ha consentito di avere una ricchezza comparabile a quella di un Tedesco).

3) Ci sono questioni economiche, ossia relative alle royalties e al fatto che le multinazionali del petrolio vengono lasciate libere di abbandonare le piattaforme ormai non più produttive. E io mi chiedo: è ostacolando gli investimenti nel settore che si migliora la situazione? Il vero problema, però, è il rapporto con le multinazionali, oggi tanto difficile: esse lavorano in un posto e pagano le tasse dove pare a loro. E non è l’insipienza dei governi, ma è il fatto che gli Stati hanno bisogno degli investimenti privati per sfruttare alcune potenzialità (come le risorse fossili) e cercano di mettersi d’accordo con potenze economiche che sono più forti di loro. La soluzione ci sarebbe: gli Stati Uniti di Europa, che potrebbero imporre – ad esempio – alla FIAT di non pagare le tasse nel paese comunitario che più gli fa comodo, ma dove evidentemente la multinazionale fa profitti. Lo stesso vale non solo per i petrolieri, ma per l’Apple, Amazon, Nestlè, etc. Uno stato piccolo (e 60 milioni di abitanti, oggi, sono pochi) non ha la forza di trattare con le lobbies e le grandi potenze economiche, semplicemente perché tali multinazionali possono operare nel paese vicino.

Detto tutto questo, mi sia permesso dire a Emiliano, il quale ieri sera ha usato toni indegni di un socialista, quanto segue: se hanno votato 14 milioni di rispettabilissimi cittadini (di cui oltre due milione contrari al referendum), non è vero che solo questi 14 milioni si sono informati. Ci sono 33 milioni di persone – la stragrande maggioranza – che hanno scelto di non andare a votare un referendum ritenuto da loro pretestuoso e sbagliato. Se l’opinione di chi è andato a votare ha dignità – e ci mancherebbe! – è doveroso rispettare anche chi non la pensa come quel 31%.


È questo, del resto, il sale della Democrazia.