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venerdì 19 gennaio 2018

Se questo è uno scrittore

«Io non so» rispose Berta.
«Tu non sai» Selva disse. «Tu lo dici che non lo sai. E invece lo sai. Chi può non saperlo?»
«Lo sa. Lo sa» disse Enne 2.
Egli sempre aveva gli occhi che scintillavano. «Vuoi che non lo sappia?» disse.
«Lo so che lo sa» Selva disse. «Come tu pure lo sai.»
E guardava ardentemente tutti e due. «Lei lo sa e tu lo sai. Tutti e due lo sapete. Ma non siete felici.»
«Non siamo felici?»
«Non lo siete.»
«Sei sicura che non lo siamo?»
«Ne sono sicura. Non lo siete.»
La vecchia Selva si rivolse di nuovo a Berta.
«Vero, ragazza, che non lo sei?»
Berta si lasciava guardare. Non rispondeva.

È un anno e mezzo che, per curiosità e ragioni professionali, mi sono imposto di leggere i grandi classici italiani del '900: Buzzati, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Fenoglio, Pavese, Pasolini, Carlo Levi, Moravia, Calvino. A parte una eccezione, quella del Gattopardo, ho sempre avuto l'impressione di confrontarmi con dilettanti della letteratura, gente dotata di poca cultura e di modesta capacità scrittoria. Il passo che cito sopra, tratto dall'esordio di Uomini e noi, ne è un esempio lampante, per la sua dizione stucchevole e la banalità del dialogo. Non solo, in Pavese e Buzzati – a prescindere dalla bellezza o meno delle storie narrate (ho letto la poco credibile Bella estate, l'avvincente La luna e i falò e lo stucchevole Deserto dei tartari) – si trovano strutture sintattiche ed espressioni verbali la cui congruità con lo bello stile è tutta da dimostrare, così come la loro correttezza grammaticale. Ho letto storie assolutamente poco credibili, come quella dei Sentieri dei nidi di ragno, o assurde, come Una questione privata, il cui autore sembra più intenzionato a dire al mondo quanto sia bravo a scrivere in inglese – questo, però, è lapalissiano soprattutto, nel Partigiano Johnny – che a raccontarci una storia e a raccontarla bene.

Per salvarmi da questo incubo, mi sono preso una pausa con Cuore e Pinocchio: libri per bambini, forse si dirà, ma scritti in italiano, in un italiano che suona e che non fa sobbalzare ogni due o tre pagine, sbriciolando le certezze di un decennale apprendimento della lingua del bel paese dove il sì suona.

Perché provo questo disagio? La risposta è che, impregnato di una educazione classica che fino all'inizio del Novecento era esclusivo appannaggio della élite intellettuale del paese, percepisco la letteratura degli ultimi 100 anni, con ovvie esclusioni (penso a Bassani, Pirandello, Tabucchi, Eco e, perché no, a Camilleri), frutto di una massa di scrittori che hanno avuto una educazione modesta e che, per ragioni politiche o economiche, sono divenuti – ahimé – prosatori, forse perché era loro – e solo a loro – concesso.

Chi ha avuto l'educazione di un Manzoni o di un Foscolo – non dico Leopardi, ché lui è un caso unico e, oggi, irripetibile – ha spesso la fortuna di fare mestieri di grande caratura intellettuale, come l'essere insegnati di ogni ordine e grado. Nonostante le persistenti chiusure classiste, questi mestieri si sono aperti, per cui un 'poveraccio' può oggi ambire ad avere una cultura che si avvicina a quella dell'élite borghese e aristocratica del Settecento e dell'Ottocento, benché la vita contemporanea, per fortuna priva della subordinazione classista di allora, ha tolto all'intellettualità molto tempo allora dedicato allo studio, ché oggi esso è impegnato nella cucina, nel lavarsi la casa o nel montarsi un mobile dell'Ikea.

Questa classe di persone istruite, oltretutto, è impegnata per vivere in mestieri che sempre di più, grazie all'esplosione della burocratizzazione del lavoro intellettuale, costringono a perdere troppo tempo nel compilare moduli, sostituendosi ai segretari, oggi assai poco avvezzi a un lavoro da loro inteso come degradante e umiliante.

Se lo studio non assicura più condizioni di lavoro migliori, la conseguenza a livello letterario è che chi dovrebbe scrivere libri non riesce a farlo e chi può scriverli non è adatto a tale compito. È oggi più facile che uno scansa-fatiche figlio di papà (o di mamma) scriva un libro oppure che un segretario faccia il poeta piuttosto che lo sia una persona con la formazione adeguata per farlo.

A ben pensarci, ciò ha una conseguenza politica non da poco: è questo un mondo in cui gli esperti lavorano nei loro mestieri – spesso denigrati dagli inesperti, che ne giudicano le competenze su non si sa quale base – mentre chi poco sa o poco vuol fare si dedica a compiti una volta appannaggio solo di chi sapeva.

Insomma, ho sempre considerato – anacronisticamente – un 'fascio' Platone per il suo amore per i sophoi, i saggi esperti che dovrebbero occuparsi della Respublica, ubbiditi dal resto della società; ho sempre ritenuto che una società dei migliori fosse un abominio, ché poi i migliori tendono a definirsi tali e a considerare 'cattivi' chi non è dell'élite.

Eppure, se una persona che scrive come una bambino mediocre delle scuole medie – alias il Vittorini sopra citato (l'esempio non è isolato: leggetevi il Garofano rosso!) – oppure se un ignorante diviene il primo ministro, qualche problema ci sarà pure.

Ché, come in Fahrenheit 451, non è detto che la Letteratura sia una acquisizione per sempre, un ktema eis aei: neanche la democrazia, del resto, è tale, rischio gravissimo se, come oggi, i peggiori osteggiano – se non odiano – i migliori, quelli che lo sono non per appartenenza di classe ma per competenza acclarata.

1 commento:

  1. Opere mediocri diventano capolavori nell'esatto momento in cui la tecnica non è più parametro di giudizio. Si dirà: "Quello che conta sono i contenuti". Come nell'arte: pennellate in libertà, a nascondere un vuoto vero, dietro a una disarmante incapacità. Eppure, a volte quella dei contenuti sembra una scusa. E aggiungerei, ma è solo un mio parere, anche il pensiero è veicolato dalle parole e, se queste sono banali, come possono non esserlo anche i pensieri? Detto questo, in un mondo di sola estetica, forse un po' di estetica della parola non guasterebbe. Quanto ai mestieri e alla politica, purtroppo temo che molto stia dietro a quei milioni di 6- che vengono dati a scuola: un po' per buonismo, un po' per scarsa fiducia nelle possibilità umane.

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