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martedì 12 marzo 2013

Il mio primo disabile


Difficile dire – sicuramente no! – se sia stato il primo mio incontro con un disabile, ma, di sicuro, è stata la prima volta che ho affrontato la disabilità, veramente. Non era un giorno come un altro, quello: il primo giorno di supplenza, l’ansia da ‘prestazione’, l’incubo di sfigurare di fronte a sedicenni di un classico. Mal di stomaco, un lieve terrore sulle labbra: «sarò sbranato», dissi la sera precedente. Arrivai a scuola e l’unica cosa che mi venne detto fu: «vai là, in fondo al corridoio, a destra».

Entro in classe, in una classe di ‘normali’ ragazzini eccitati dalla novità di un diverso insegnate, relativamente giovane: tutti vocianti ed eccitati. Sì, sorridenti, tranne uno, tranquillo e pacato. Per questo non lo notai subito, forse lo percepii soltanto con la coda dell’occhio, lieto che almeno quello non mi avrebbe «mangiato vivo». Avevo deciso, il giorno prima, in preda all’ansia, di dar loro una versione di latino facile, facile, sì da testarli. Distribuisco, sin ad arrivare a lui, un giovane che, come tanti suoi coetanei, non s’è ancora reso conto che sarebbe il caso di iniziare a radersi i baffi. Do il foglio anche a lui, come agli altri, ma un coro mi precede, quale di solito erutta da sedicenni eccitati: «No, Prof., lui no!». Gelo! Oh dio, mi dico, allora quel giovane con i baffetti appena accennati, docile e sorridente, dalla carnagione scura, è un disabile!

Non so se quel ragazzo di origine pakistana, che «a volte dorme sul divano, poveretto!», abbia realmente capito, o solo intuito, cosa era avvenuto: era stato additato – non per malizia, certo! Anzi – come un diverso, come chi non può, come gli altri, vivere l’eccitazione e la scoperta del «nuovo Prof.». Del resto, pochi minuti dopo, un insegnate, che a stento mi ha salutato e che certo non si è presentato, è entrato in classe e s’è portato via quel gracile ragazzo dai baffetti neri, come se fosse una cosa normale. Cosa avrei potuto fare? Cosa? Capire subito la situazione? È stato difficile, mi sono sentito irrimediabilmente solo. Dopo una settimana, ormai finalmente un po’ più a mio agio in classe, mi rivolgo alla giovane ragazza che, oltre allo scontroso insegnante del primo giorno, sembra occuparsi del mio ‘diverso’. «Ma che ha?», chiedo timidamente. «Francamente, non so: sono una educatrice, per di più supplente, nessuno mi dice nulla!». 

E ti vien da chiederti, allora, cosa diavolo sia la vera integrazione, cosa quel giovane ha provato, proverà e, soprattutto, prova. Che senso ha che frequenti un classico, soprattutto se sta fuori dalla classe più della metà del tempo? E quando è ‘con noi’, disegna o coniuga verbi… Che cosa dovrei fare per lui, lui che, ahimé, non sarà mai al livello degli altri, lui che pare avere un cervello da bimbo in un corpo da adolescente? Ho solo domande, certo, ma, al mattino, quando con i suoi baffetti mi saluta con la timidezza della gioventù, mi spunta sempre un sorriso.

2 commenti:

  1. Forse sarebbe meglio chiederlo al tenero bimbo coi baffetti. Con tutta questa faccenda degli insegnanti di sostegno e dei POF, nessuno s’interroga mai se il bimbo coi baffetti si trovi realmente bene all’interno del gruppo classe. Il vero dramma non è tanto la generalizzazione del concetto di ‘disabile’ o il suo essere foneticamente fastidioso per orecchie fini e falsamente sensibili come le nostre, il vero dramma è la generalizzazione del concetto d’inclusione. Perché non è detto che questa sia il reale obiettivo da raggiungere. Anche quelli che rientrano nell’etichetta dei cosiddetti ‘normali’, che di solito hanno nella classe il loro rifugio e la loro sicurezza, possono alle volte trovarvi soltanto dolore: il dolore non tanto di essere fisicamente esclusi, ma quello di sentirsi diversi e non capiti.
    Ci sono un sacco di persone che escludono, a questo mondo. Forse bisognerebbe partire da questo.

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    1. Perché includere qualcuno in un mondo che ha il vezzo dell'esclusione può essere ancora più terribile. Io comincerei proprio da questo stupido vezzo che hanno le persone normali o, meglio, quelle che si sentono normali +.

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