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lunedì 17 ottobre 2011

A Simonide piace il calcio

Anni fa, leggendo un saggio sul Satyricon, mi sono imbattuto su una frase di questo tipo: «non c'è da stupirsi se persone eleganti come Petronio si interessassero di giochi e attività basse, poiché anche oggi illustri professori di greco e latino smaniano davanti a una partita di calcio». L'autore, assunto il tipico atteggiamento da Catone il Censore rompiscatole, considerava evidentemente sconveniente ardere per qualcosa che non fosse buona letteratura. Ecco, l'ambiente in cui vivo è questo, in effetti: in un paese in cui il 90% degli uomini ha quasi un orgasmo quando la palla entra in porta – vi sarà un simbolismo sotto? – io nel mio ambiente di lavoro non conosco nessun vero tifoso, a parte un paio di eccezioni. 

Ma cosa c'è di sconveniente e stupido nell'amore per il calcio? L'evento sportivo è – ad essere antropologici – un fenomeno sociale totale. Assume in sé aspetti del sacro, della socialità, del magico, del ludico, etc. Come tale muove molte corde, le fa vibrare e rende felici.

Io sono sempre stato tifoso, ma non sempre allo stesso grado. Attenzione, io non sono solo amante del calcio, sono un tifoso della Roma, che è tutt'altro. Bene, il mio 'amore' è sbocciato in particolar modo direi 14 anni fa, quando lasciai Roma, la mia città natale, per girovagare per l'Italia e per il mondo. La Roma, intesa come squadra, ha rappresentato per tutto questo tempo il vincolo indissolubile con la mia città, con i ricordi che essa raccontava, con le splendide persone – ancor oggi molto amate – che lì ho conosciuto e che, in parte, lì ancora vivono. I colori giallorossi sono appartenenza, sono il sentirsi parte di qualcosa che è dentro di me, quella parte che mi fa vivere tutte le cose che faccio in modo sanguigno e molto passionale, ossia come si fa a Roma. Un Romano – non parlo di altre provenienze per ignoranza – si sente prima di tutto un Romano, molto prima di essere Italiano. E la Roma è identità, tant'è che l'emozione che ho provato per lo scudetto non ha nulla di paragonabile in intensità con l'Italia campione del mondo di qualche anno fa.

Ma c'è dell'altro, oltre al vincolo affettivo. Un po' come gli antichi, che quasi si trasformavano davanti ad un'esecuzione poetica, io subisco un mutamento straordinario, quando guardo una partita. Le mani divengono fredde, il cuore batte, strillo, urlo, insulto, faccio fioretti e voti, piango, rido: vivo con un'intensità paurosa. E infatti non dormo, dopo, se la partita è stata di sera. Mi denudo ai goal, lancio i calzini in aria, etc. 

Direte, «ma questo è fuori!». Può darsi, ma è il momento della settimana in cui il peso della vita si alleggerisce, quando tutto sembra superabile, perché il calcio e la Roma «mi fa re quando sento le campane la domenica mattina». 

Che male c'è, allora? E perché dovrebbe essere un disonore per un filologo classico, quando impazzisce per un goal del Capitano o, anni fa, per un recupero di Pluto? No, io ho un altro criterio di giudizio. Io «temo i Danai», quando non si emozionano, perché chi è un vero amante della letteratura deve sapersi infiammare; sì, infiammare, come si infiammava Archiloco davanti ad una coppa di vino o Alceo, quando voleva far dimagrire quel pancione di Pittaco a furia di calci nel sedere. Perché io credo che per capire gli uomini veri ci vogliono uomini veri, non topi di biblioteca che l'unica cosa che amano è le macchie d'inchiostro e i giochi intertestuali fra dotti, eruditi e noiosi signori.

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